Intervista esclusiva con Loredana De Vita, a cura di Daniela Merola

Daniela Merola intervista in esclusiva per ragguagliami.org la scrittrice, professoressa di lingua e letteratura inglese e giornalista pubblicista Loredana De Vita. Ha pubblicato per “Armando edizioni” “giochiamo che ero….conversazione con chi ama la scuola” 2009, “genitori senza controllo” 2010. Per “nulla die”edizioni ha pubblicato “donna a metà” 2014, “oltre lo specchio: immagini e cultura del femminile” 2015, “alla scoperta dell’invisibile: adolescenti alla ricerca di sé” 2016. Ora ha pubblicato “non scavalcare quel muro”.

  • Loredana, inizio con una curiosità, nella tua biografia hai aggiunto la frase “pago le tasse e amo la vita”, una frase assolutamente non banale, direi fondamentale in un mondo come questo di oggi, un richiamo al dovere e al bello è sempre importante. Perché hai voluto scrivere questa frase?

“Pago le tasse e amo la vita” è un modo per tenere sempre ben presente la tensione della persona tra due punti che non limitano o chiudono, ma liberano: legalità e passione, sono inscindibili per affermare con determinazione il proprio posto nel mondo. Pagare le tasse significa rispettare le regole e, per questo, asserire il proprio diritto alla vita secondo coscienza e con discernimento e scegliere le regole che danno valore alla vita e non quelle che la ingiuriano.

  • Scrittrice di successo, giornalista, professoressa attenta al mondo dell’insegnamento e dei giovani, tre professioni che hanno una cosa in comune, l’uso delle parole. Cosa possono rappresentare le parole nella nostra società fatta di immagini, spesso violente, e di superficialità?

Dico spesso che “scrivere è testimoniare” perché la parola scritta come quella pronunciata ha il dovere di essere reale, dignitosa, rispettosa; le parole hanno anche la responsabilità dell’altro e mai dovrebbero essere usate senza la consapevolezza della testimonianza che in ogni istante offrono della persona che le usa. Noi tutti, dai giovani agli adulti, siamo colpiti e spesso feriti dalle immagini frenetiche che privano del tempo della riflessione e ci catapultano in un tempo che è sempre il “futuro prossimo”, cioè che si esaurisce nell’attimo ed è già altro. Le parole, invece, hanno un tempo diverso, quello che io chiamo il “per sempre”. Sono attente al presente, ma non dimenticano la “storia” che contengono e che impiegano per costruire in prospettiva. Le parole hanno il tempo dell’ascolto, ahimè sempre più spesso dimenticato. Le parole hanno il tempo della riflessione e dell’attesa. Sono importanti, le parole, e sono dei segni.

  • In tutte le tue pubblicazioni letterarie c’è una grande attenzione al mondo femminile. Credi che le donne hanno ancora molto bisogno di essere comprese, ascoltate e capite?

In realtà io non credo che le donne debbano essere comprese (da), ascoltate (da) e capite (da). Credo che le donne debbano scoprirsi nella forma “attiva” più che passiva… Debbano comprendere, ascoltare e capire prima di tutto se stesse, debbano essere se stesse e abbandonare questa intima auto-discriminazione che le stereotipa in “coloro che devono sempre ricevere” invece di affermarsi con determinazione. Io credo che le donne e gli uomini insieme debbano inventarsi e riscoprirsi nuovi, abbandonare i limiti di una cultura che crea dipendenza e porsi le une accanto agli altri per inventare il nuovo. Talvolta, purtroppo, sono le donne stesse ad avere di sé una concezione di subalternità confermando, in questo modo, un pensiero femminile che inesiste (cioè smette di esistere), un’immagine di sé che sparisce e smette di imprimere di senso e direzione il proprio cammino. Temo che questo atteggiamento contribuisca alla conservazione di una visione standardizzata del femminile dove la “persona donna” ne esce sempre sminuita e mai veramente libera. Pensa a quanto spesso ci si sente dire di “non vestirsi così o agire così”, quanto spesso si parli di doversi proteggere e tutelare… è terribile… nessuna persona dovrebbe essere cresciuta per proteggersi da un’altra e nessuno dovrebbe sentirsi autorizzato e legittimato in un maltrattamento o peggio solo perché indossa una minigonna, dei leggings o perché cammina di sera da sola. Perché accade? Perché culturalmente siamo abituate e abituati alla “cultura della forma passiva” per le donne. Le donne sono quelle che subiscono un’azione, non la agiscono. Ecco, questo non mi piace, per questo lavoro e ne parlo tanto.

  • La tua ultima fatica letteraria è il libro “non scavalcare quel muro” edito da “nulla die”. E’ una storia dura, la storia di una donna vittima di violenza, è la storia di una madre, di una figlia che cerca di capire le scelte di sua madre, ed ha una trama molto drammatica. Loredana, parliamo di questa storia di disperazione.

La drammaticità della narrazione deriva dal fatto che è una storia vera; la tensione nella lettura è tale che si percepisce questa verità, anche se si preferirebbe negarla. Ho raccolto con dolore questa storia, ho chiesto il permesso di narrarla, l’unica clausola che mi è stato chiesto di rispettare era quella di calarmi in un dolore fortissimo per me altrimenti non avrei mai potuto raccontarla nel profondo. Era vero. La storia è tale che per narrarla in qualche modo dovevo restarne coinvolta. Così nasce la struttura narrativa a doppia voce, da una parte Francesca, la figlia, che narra il presente minimo di un funerale, quello di mia madre, dall’altra la voce del narratore onnisciente che narra la storia reale e che spesso interviene e commenta quasi a dare respiro a una narrazione che è come un pugno fortissimo nello stomaco di chi legge. Quando apprendiamo dalle News di “femminicidi” conosciamo solo l’azione finale e visibilmente violenta di una persecuzione contro una donna per il bisogno di un uomo di tutelare il proprio dominio, ma quelle orribili morti hanno un lungo “prima” di cui non si sa nulla. Con la storia di Maria è quel “prima” che ho voluto sviscerare. Un prima che coinvolge i figli, i vicini, il silenzio… il drammatico e spesso inconsapevole, ma spesso colpevole silenzio che circonda le donne vittime di violenza (psicologica e/o fisica). Nessuno può restare indifferente, nessuno deve.

  • Hai messo a confronto la voce di una figlia, Francesca, con la voce di una madre, Maria, per raccontare una storia di sofferenza da due punti di vista diversi. L’ispirazione purtroppo viene dal quotidiano che vediamo tutti i giorni. Con questo romanzo qual è il messaggio che hai voluto trasmettere?

Non ho la presunzione di poter insegnare qualcosa a qualcuno, voglio solo ricordare che queste storie esistono e che sono spesso più vicine di quello che crediamo. Queste storie fanno parte di noi, anche se non ci colpiscono direttamente perché le vittime sono molteplici. E’ vittima la donna che subisce, i suoi figli e familiari stretti, gli amici, i colleghi, le insegnanti dei figli, gli educatori. Nessuno è escluso. Queste storie seguono una spirale che si stringe sempre di più come un cappio attorno all’esistenza delle donne violate e dei figli violati; il nostro silenzio, l’indifferenza, le visioni omologate e i luoghi comuni sulla relazione uomo/donna, contribuiscono a stringere quel cappio rendendoci complici. Ecco, forse solo questo mi piacerebbe dire, impariamo ad ascoltare, a riconoscere i segni, a non fare gli indifferenti ma neanche i supereroi, impariamo a parlare e indirizzare le donne e/o i figli e i familiari che rivelano minuscoli segni di disagi profondi, ma soprattutto impariamo ad ascoltare.

  • Il silenzio delle donne, il loro sopportare lo racconti in “non scavalcare quel muro” in maniera emblematica e straziante. Non hai voluto nascondere il dolore vero. Perché secondo te le donne soffrono così tanto in silenzio?

No, non ho voluto nascondere il dolore vero. Non per suscitare emozioni, ma per far capire. Qualcuno mi ha detto che sono stata “chirurgica” nella descrizione, è vero, ma per quanto doloroso era necessario. Proprio come dicevi prima, siamo circondati da immagini, ma nessuna resta più del tempo che trova. Le parole hanno agito in questa storia come il bisturi di un chirurgo che incide e seziona, nulla può essere lasciato al caso, sebbene sia una possibilità che il paziente muoia. La cura e la meticolosità del chirurgo è quella che potrebbe “salvare” quel paziente, la cura e la meticolosità della narrazione è quella che può liberare l’anima prigioniera di “Maria” e dare voce e significato alla sua storia. Maria tace per cultura, siamo nel dopoguerra e ancora più forte era la necessità di mettere a tacere tutto e sentirsi causa della violenza subita. Troppo spesso accade ancora, sebbene le condizioni non siano più le stesse. Maria, però, “parla” in un altro modo. Per proteggere, come credeva, i figli, lei subisce, ma diventa a sua volta violenta come leonessa che protegge i cuccioli. Le donne tacciono per cultura, per quella stessa cultura che insegna agli uomini a essere “dominus” e alle donne a essere dominate. E’ ora, insieme donne e uomini, di sfatare questi falsi miti.

  • Stai facendo varie presentazioni di questo romanzo. Come è stato accolto dal pubblico soprattutto femminile?

Il libro tocca i tasti più profondi dell’emotività. Molte donne, ma anche diversi uomini, cercano se stessi nel libro. Cercano di capire se il loro modo di essere uomini o donne corrisponda alla storia narrata. Quasi tutti coloro che assistono alle presentazioni o leggono il romanzo mi dicono (o mi scrivono su una mail che nel libro ho voluto inserire nel caso qualcuno voglia continuare il discorso) di voler abbandonare la lettura dopo i primi episodi senza però riuscirvi. C’è un processo di identificazione con il dolore, la speranza che possa passare, la richiesta che finisca il dolore e che non sia vero. Molti tra questi che volevano abbandonarlo lo hanno poi letto in un giorno e una notte senza riuscire a staccarsene. Alcune donne mi hanno scritto in privato e narrato la loro storia… ti assicuro, non raramente mi è capitato di immaginare quello sguardo ceruleo di Maria mentre leggevo le mail e le voci di queste donne. Per me è ogni volta un dolore rinnovato, ma anche la consapevolezza che queste storie sono più frequenti di quello che vogliamo immaginare e che maggiore deve essere l’attenzione e la responsabilità personale. Me lo sono chiesta: come può essere accolta una storia così? Come una possibilità, forse, da parte di chi ha bisogno di trovare la sua voce; come un fastidio, forse, da parte di chi non vuole ammettere che queste storie esistono; come una rivelazione, forse, da parte di chi si riconosce nel carnefice e non sa come affrontare se stesso…spero sappia cambiare e avere il coraggio di guardare negli occhi la sua compagna. Ma, forse, sarebbe meglio che fossero i lettori a darmi il loro riscontro. Al termine del romanzo c’è una lettera che scrivo ai lettori, e quella non è la storia di Maria e Francesca, ma la nostra storia perché la storia di una è la storia di tutte e di tutti.

 

DANIELA MEROLA